Le forme del paesaggio vitivinicolo della Valle dell’Adige
Angela Alaimo, Elena Dai Prà
Il paesaggio è uno scrigno di segreti per chi lo sa guardare. Nell’immagine sincretica che rimanda all’osservatore è possibile cogliere i segni delle territorializzazioni succedutesi nel tempo, insieme ai progetti che lo stanno trasformando. Tra continuità, discontinuità e trasformazioni, il paesaggio rivela la sua natura mutevole e cangiante, la dimensione dinamica degli spazi abitati e trasformati dall’uomo. Come direbbe Denis Cosgrove, il paesaggio è un prodotto sociale che rimanda ad una precisa ideologia del mondo. Vi ritroviamo il risultato di espressioni socio-culturali che sono riuscite ad affermarsi, elementi persistenti in abbandono, diversi modi di intendere la relazione uomo e ambiente. Attraverso quella che per molti resta “una bella veduta”, possiamo leggere il nomos della terra (Smith, 1991) che lo ha creato. Per questo nel paesaggio si intrecciano le dimensioni che strutturano il nostro stare insieme; lì prendono forma l’identità dei popoli che lo hanno abitato, i segni del lavoro dell’uomo che ha piegato la terra alle proprie esigenze produttive, ma anche i sogni e gli ideali che hanno guidato le società che si sono avvicendate. Il paesaggio come bene comune e risorsa da preservare per le generazioni future è un’acquisizione relativamente recente; nasce nel momento in cui si è persa l’ancestrale relazione tra l’uomo e ambiente, quando i disastri di progettualità miopi hanno portato alla perdita della diversità ambientale e culturale, distruggendo l’armonia degli elementi paesaggistici che ne fondano i principi di bellezza e di sostenibilità. La Convenzione Europea del Paesaggio, firmata a Firenze il 20 ottobre del 2000, è sicuramente una delle risposte più decise a questa situazione e sancisce il concetto, oggi collettivamente condiviso, che il paesaggio costituisce la cornice fondamentale entro cui si colloca il patrimonio culturale e naturale d’Europa, che deve quindi essere preservata.
ph. Stefan Stecher ©
Nel percorso che stiamo per intraprendere analizzeremo le componenti fondamentali del paesaggio vitivinicolo della striscia di territorio che separa il Trentino dall’Alto Adige, cercando di comprendere quali elementi lo rendono unico. È impossibile prescindere dalla dimensione che maggiormente segna quest’area di transito: il suo essere frontiera. La frontiera non è il confine, non si esaurisce nella linea di demarcazione politica tra diverse giurisdizioni. La frontiera è una fascia territoriale dai contorni sfumati che sarebbe forse più appropriato rappresentare attraverso la tecnica pittorica dello sfumato, tanto utilizzata dai cartografi antichi che custodivano il senso poetico dello spazio, più che quello metrico, oggi dominante. Proprio loro, realizzando carte utili per le esigenze del proprio tempo, non potevano prescindere dal dare anche forma artistica alla dimensione del paesaggio, alla sua bellezza.
L’area di frontiera di cui ci occupiamo unisce e separa due mondi culturali distinti che hanno lasciato i segni dei loro diversi progetti territoriali. Questi si trovano intrecciati e frapposti, perché nei territori di frontiera i segni del paesaggio nascono dall’unione più che dall’artificiosa separazione di contesti contigui che proprio dalla vicinanza, dallo scambio, dai continui attraversamenti, traggono forza e peculiarità.
L’attività agricola nelle zone alpine ha da sempre dovuto affrontare grandi sfide ambientali per conquistare spazi coltivabili: nelle aree pianeggianti vincendo una dura e impari lotta contro le acque, mentre nei terreni più acclivi gareggiando col bosco.
Osservando il paesaggio della Valle dell’Adige si colgono, nel fondovalle e lungo i versanti, i segni della fatica dell’uomo, volta alla creazione di spazi agricoli nell’opera di terrazzamento dei pendii e in quella di protezione e sistemazione idraulica per il contenimento dell’irruenza delle acque nelle aree pianeggianti. In questo paesaggio, i territori vitivinicoli rappresentano indubbiamente uno tra i segni più forti, che possiamo considerare come “iconema” contemporaneo (Turri, 1998), tratto distintivo e caratteristico di questa realtà territoriale.
In Trentino la grande varietà di profili climatici (dal submediterraneo, al continentale, all’alpino), coniugandosi alla diversità geologica dei suoli (rocce cristalline e rocce moreniche e arenarie, derivanti in gran parte dalla disgregazione e dal deposito gravitazionale delle rocce dolomitiche), offre molteplici possibilità alla coltivazione della vite e alla produzione enologica. Proprio per questo, la vite rappresenta una delle componenti più particolari del suo paesaggio.
La coltura della vite assume svariate forme, in stretta relazione alle caratteristiche orografiche e climatiche dell’ambiente di accoglienza. Questa estrema adattabilità, unita alla plasticità vegetativa, ne ha consentito la diffusione anche in condizioni pedoclimatiche critiche, portando alcuni studiosi a definirla come “pianta colonizzatrice per eccellenza, già manifesta in altre epoche storiche” (Cusimano, 1990, p. 34).
I fattori che ne influenzano l’allevamento sono profondamente legati all’andamento morfologico del territorio e al clima. L’uomo tenta di armonizzare questi diversi vincoli, trasformandoli in possibilità, creando così specifici terroir, espressione dell’imprescindibile relazione che il vino ha non solo con la terra, ma anche con la comunità che lo produce. Proprio l’intreccio tra le diverse componenti ambientali del terreno (esposizione al sole, profilo, suolo, valutazione dell’idoneità) e del clima (vento, umidità e temperatura) e colturali (scelte di particolari sistemi di allevamento, potatura e concimazione), contribuisce a creare gli elementi di unicità e specificità del paesaggio vitivinicolo.
I paesaggi vitivinicoli dell’Italia del Nord nascono seguendo l’impostazione etrusco-romana che prevede l’utilizzo di viti alte e molto produttive dotate di un sostegno vivo (strutture alberate) o a secco (le pergole). La forma di allevamento prevalente in Trentino è sicuramente la tradizionale “pergola trentina” che rappresenta, secondo i dati 2010 della Camera di Commercio di Trento, circa il 78% nella variante semplice ad un’unica ala o in quella doppia a due ali opposte tra loro. Di recente, troviamo anche l’introduzione di forme di allevamento a parete verticale, come il sistema a Guyot e a spalliera: anche se questi ultimi rappresentano, oggi, solo il 22% della superficie coltivata.
Anche la scelta di vitigni prevalenti è legata alle condizioni orografiche e climatiche. In climi freddi vengono infatti scelte uve a maturazione precoce, mentre la presenza di determinati sistemi morfologici (montagne, foreste, laghi e fiumi) garantisce un’importante azione termoregolatrice capace di proteggere, ad esempio, le vigne da venti freddi d’inverno o di garantire l’umidità durante la stagione più calda.
Nel paesaggio vitivinicolo della Valle dell’Adige coesistono sistemi viticoli estremamente diversificati le cui specificità sono ricollegabili all’andamento altimetrico del terreno. La produzione collinare e di altura lascia segni difficilmente confondibili con quelli delle aree pianeggianti. Le forme di allevamento della vite che si osservano esprimono profondamente la duttilità della relazione tra l’uomo e l’ambiente. I viticoltori, infatti, modellano la vite grazie alla natura sarmentosa della pianta che la rende adatta a diverse manipolazioni, scelte in considerazione delle caratteristiche geomorfologiche dell’ambiente in cui l’allevamento si inserisce.
Un elemento comune segna, poi, il paesaggio vitivinicolo di questi territori di frontiera alle diverse latitudini: l’accostarsi di due diversi regimi fondiari che costituiscono un elemento di cesura forte tra il paesaggio Trentino e quello dell’Alto Adige. In questa area di frontiera, proprio le forme dell’abitato permettono di ritrovare nel paesaggio ipotetiche linee di confine. Il regime fondiario diversificato marca profondamente lo spazio, portando alla presenza di strutture abitative sparse, che rispecchiano il regime fondiario del maso chiuso tipico dell’Alto Adige che, garantendo l’unità economica della proprietà agricola, ne impedisce la suddivisione. Il risultato paesaggistico è la presenza di incasato storico circondato da vasti appezzamenti agrari. Mentre in Trentino, in conseguenza dell’applicazione del regime ereditario romano, la proprietà agraria ha subito una maggiore parcellizzazione, frazionando notevolmente il territorio agricolo con risultati visibili nel paesaggio.
Rispetto alle peculiarità altimetriche, è possibile notare come la distribuzione delle superfici vitate si ripartisca per il 39% in fondovalle, per il 41% in collina e per il 20% in montagna. Questa suddivisione non stupisce se consideriamo che, nell’allevamento della vite, le aree collinari o pedemontane sono state da sempre favorite per la giacitura del terreno, ovvero l’inclinazione che favorisce un migliore drenaggio e una maggiore irradiazione dei raggi ultravioletti, incrementando notevolmente l’attività vegetativa e la maturazione dei frutti: mentre nei fondovalle la moderna agricoltura speculativa si è innestata solo successivamente, diffondendosi ampiamente grazie alle possibilità di sfruttamento intensivo e commerciale.
Nelle aree collinari e montane del territorio della Val d’Adige, i terreni vitati si presentano come avvinghiati ai terreni in declivio sulla valle quasi senza alcuna soluzione di continuità, a testimonianza della caparbietà dei viticoltori del luogo. Nella scelta dei terreni si prediligono i versanti maggiormente orientati a sud, e vi persistono sistemi di coltura più tradizionali in cui a volte la policoltura abbraccia ancora armoniosamente antichi masi. Osservando l’organizzazione dei filari in relazione alla pendenza del terreno, ritroviamo le forme caratteristiche del paesaggio vitivinicolo alpino con le tipiche sistemazioni della vite. Nelle aree meno scoscese, la sistemazione a rittochino, porta ad una disposizione dei filari nel senso della pendenza, per facilitare il corretto deflusso delle acque e la meccanizzazione della raccolta. Nei terreni invece che presentano nello stesso appezzamento diverse inclinazioni, ritroviamo la sistemazione a spina, che permette di mantenere l’orientamento dei filari in massima pendenza. Anche la sistemazione di traverso presenta un andamento armonico col rilievo, integrandosi dolcemente nel paesaggio. In questo caso, l’orientamento dei filari segue le curve di livello, senza modificare la pendenza naturale (se questa lo consente).
Certamente però sono i terrazzamenti e i ciglionamenti, utilizzati quando la pendenza supera il 40%, uno degli elementi precipui del paesaggio collinare e montano viticolo tradizionale. Essi si inseriscono nella struttura del versante, creando superfici adatte al posizionamento dei filari, spesso sostenute da muri a secco, gabbie, gradoni di tavole, ripiani e ciglioni erbosi. Questi sono luoghi di importante interesse di conservazione del paesaggio tradizionale, poiché frutto di conoscenze legate al lavoro tramandato per secoli tra le comunità. Queste pratiche, trasmesse a livello familiare di generazione in generazione, racchiudono un ricco bagaglio spesso dato per scontato: veri e propri tesori di conoscenze utili per combattere i fenomeni di dissesto idrogeologico oggi molto diffuso proprio a causa dell’abbandono di queste sistemazioni dei pendii. Purtroppo, le aree terrazzate sono diventate oggi marginali per la minor produttività, rispetto ai sistemi di sfruttamento più redditizi del fondovalle, e per le difficili condizioni di coltivazione che hanno portato in molti casi all’abbandono, con conseguenti processi di rinaturalizzazione dei sistemi terrazzati.
ph. Fabio Maione ©
Sempre lungo i versanti, osserviamo, soprattutto nell’area altoatesina, la sistemazione a girapoggio che si sviluppa in armonia con le curve di livello accompagnata da piccoli cingolati. I vigneti sono qui associati alla frutticoltura, con maggiore predilezione per il melo. Gli edifici rurali sono situati al centro dei vigneti, rispecchiando le caratteristiche del sistema fondiario di cui abbiamo parlato sopra.
La presenza della vite nelle aree marginali più acclivi e in quelle di montagna ha garantito storicamente un reddito ai suoi abitanti. Le difficoltà strutturali della coltivazione (difficile agibilità dei terreni, basse produzioni e lontananza dai centri di commercializzazione) hanno però preservato una viticoltura tradizionale più armonica col territorio, impedendo la meccanizzazione e l’ampliamento eccessivo delle aziende. Purtroppo però, oggi, questo tipo di paesaggio produttivo è a rischio, a causa della flessione dei ricavi e dell’aumento dell’età media dei viticoltori che provoca una contrazione dell’area vitata.
L’allevamento della vite si diffonde in pianura solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento nel momento in cui, anche nella Valle dell’Adige, si creano le condizioni sociali e tecniche per lo sviluppo di una agricoltura specializzata ed intensiva. I territori della pianura erano stati infatti, da sempre, poco adatti alla coltivazione della vite per tre principali ragioni: anzitutto la difficile gestione delle acque che provocava continue inondazioni, poi la minore esposizione ai raggi solari e infine le frequenti gelate primaverili, pericolose nel periodo dell’anno in cui la pianta inizia a germogliare.
Abbiamo rintracciato quattro momenti fondativi di questo territorio, passaggi epocali di non ritorno che ne segnano indelebilmente la forma paesaggistica. Tutti si collocano, e non è un caso, in una fase storica di grande fervore a livello mondiale, quella della Seconda metà dell’Ottocento.
La prima cesura, rispetto al paesaggio tradizionale, si realizza quando l’uomo vince la sua battaglia contro le acque, attraverso la realizzazione di ingenti opere di regimazione idraulica dell’Adige e del Noce, i due principali corsi d’acqua della pianura. La bonifica di territori, prima paludosi e destinati principalmente all’allevamento nei periodi autunnali e invernali, apre nuove possibilità di utilizzo del suolo. Nella seconda metà dell’Ottocento, si porta così a compimento con interventi massicci e definitivi il progetto iniziato già nella prima metà del Settecento da Maria Teresa d’Austria di risanamento di queste aree paludose.
Al dominio delle acque si lega la possibilità di aprire un asse ferroviario lungo la valle: la costruzione della ferrovia del Brennero (inaugurata nel tratto che comprende l’area da noi analizzata nel 1859) rappresenta un secondo momento di rottura rispetto al territorio tradizionale. L’arrivo della ferrovia, segno tangibile dell’antropizzazione della valle e della modernità dei tempi, trasforma radicalmente le dinamiche di attraversamento, mutandone l’antica vocazione. Da luoghi storici di transito diventano assi di rapidi attraversamenti spaziali. Proprio qui, nella strettoia in cui oggi scorre il confine tra le province di Trento e Bolzano, confluivano le principali vie di comunicazione che costituivano per i territori a nord del Tirolo un’importante via di accesso verso sud. Da qui passavano i tradizionali percorsi del Grand Tour che seguivano l’antico assetto viario segnato dalla storica via romana Claudia Augusta, a cui si deve la famosa descrizione di Goethe della piana rotaliana, definita in “Viaggio in Italia” il più bel giardino visitato d’Europa. Ancora oggi è possibile scorgere i segni di questi antichi camminamenti in sentieri come quello del pittore Dürer, in cui le strade del vino intrecciano l’arte, nel tentativo di valorizzazione turistica dell’antico patrimonio di questi luoghi.
La ferrovia segna così inesorabilmente la marginalizzazione di questo territorio che perde la sua centralità, diventando solo spazio di attraversamento e di passaggio nel contesto di un complesso sistema plurimodale formato, oggi, oltre che dalla ferrovia, dall’autostrada e dai due assi di attraversamento ordinario, rispettivamente in destra e sinistra Adige.
Il terzo cambiamento, che segnerà la storia evolutiva di questo territorio, è la costruzione nel 1874 dell’Istituto di ricerca agrario di San Michele all’Adige che consente di rispondere a gravissime patologie della vite (oidio, peronospora, filossera, ecc.) causa in questo periodo di carestie e di un brusco arresto della produzione viticola.
ph. Giorgio Dalvit ©
Il quarto e ultimo, ma non certo per importanza, momento generativo della trasformazione che stiamo analizzando è il passaggio al sistema cooperativistico, che si diffonde in Trentino all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, sulla base di esperienze di successo che provengono dai vicini paesi tedeschi. Questa nuova forma di organizzazione porterà ad una radicale trasformazione delle strutture proprietarie con la nascita dei primi consorzi irrigui, di nuove forme di lavoro cooperative, di imprenditoria privata sostenuta dal sistema pubblico. L’organizzazione cooperativistica diventerà un tratto distintivo dell’economia trentina e investirà i principali settori produttivi (frutticolo, lattiero-caseario, zootecnico e viticolo) (Grillotti Di Giacomo, 2000). Sono queste le premesse socio-culturali che consentono la transizione al moderno modello di produzione agricola industriale che diventerà il sistema prevalente nei territori del fondovalle: piccole aziende, associate tra loro in cooperative, organizzate gerarchicamente tra loro su più livelli, che vengono gestite da moderne cantine sociali all’interno delle quali si realizza la maggior parte della vinificazione delle uve e l’attività di commercializzazione del prodotto finale.
Nel paesaggio di pianura ritroviamo con forza i segni di questa storia, legata all’assoggettamento progressivo della terra all’esigenze dell’uomo. L’elemento del paesaggio oggi preponderante è indubbiamente la struttura reiterata e monocorde dell’allevamento intensivo della vite, con i caratteristici sistemi a pergole doppie, in cui il tipo di sfruttamento agricolo rivela le necessità di una produzione vitivinicola di tipo industriale. Si è persa qui, quasi totalmente, la dimensione policolturale che ha da sempre caratterizzato il paesaggio della vite, in cui i filari venivano intervallati da alberi da frutto, attraverso una diversificazione che assicurava non solo varietà paesaggistica, ma soprattutto, equilibrio e fertilità del suolo. Nel paesaggio agrario della vasta pianura si affiancano invece, giustapposti tra loro, sistemi di sfruttamento intensivo: accanto alla vite, troviamo il melo la cui coltivazione è stata anch’essa piegata alle esigenze del mercato mondiale, con una notevole perdita della varietà delle specie coltivate. Forse proprio l’assenza di spazi vuoti, liberi da questa forma di sfruttamento, rende il paesaggio regolare e monotono. Anche l’andamento del fiume sinuoso, ma disciplinato, rivela i segni di una territorializzazione forte che ha saputo arginare la forza delle acque che avevano da secoli impedito lo sfruttamento agricolo della valle, ma che al contempo, grazie alle continue inondazioni e straripamenti, ha creato quelle condizioni uniche che hanno fatto la fortuna di uno dei vitigni autoctoni più importanti oggi nella produzione enologica del territorio. Il Teroldego, infatti, deve la sua forza proprio all’acqua, che ha saputo modellare un terreno ricco di materiali sedimentari e sabbiosi che costituiscono oggi la fertile base per le uve rosse di questo famoso vino.
Il breve percorso delineato ribadisce l’importanza che assume oggi la salvaguardia del paesaggio vitivinicolo. Attraverso la promozione della cultura del vino, la tutela del paesaggio e della tradizione è possibile cogliere la sfida per promuovere una valorizzazione condivisa e partecipata del territorio. Conoscere il paesaggio vitivinicolo è il primo passo per intraprendere esplorazioni e azioni capaci di coniugare passato, presente e futuro. Infatti, solo rispettando il patrimonio paesaggistico è possibile progettare uno sviluppo integrato e sostenibile, nel rispetto delle tradizioni identitarie e culturali dei luoghi.
I filari della vite, nel paesaggio vitivinicolo che abbiamo attraversato, sono spesso preceduti da una pianta di rose, segno persistente di una tradizione culturale e colturale unica, armonica continuità tra passato, presente e futuro. La rosa ci ricorda, poeticamente, l’importanza di custodire la bellezza di antichi saperi e di delicatissimi equilibri.
ph. Gianni Bodini ©
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